NIYAMA

Cresce il nostro percorso, attraverso gli otto rami dello yoga

Germoglio

Fonte immagine: Pixabay

“Disciplina, studio di sé, abbandono a Dio: questi sono i passi preliminari che portano allo yoga”

-Patanjali, Yoga Sutra II, 1-

Abbiamo già parlato degli yama, i primi 5 principi morali su cui si fonda lo yoga, descritti da Patanjali, nel secondo libro degli Yoga Sutra.

A questi fondamenti etici si aggiungono altri 5 principi, maggiormente focalizzati sull’interiorità e la dimensione personale dell’individuo, chiamati NIYAMA.

Dalla pratica della filosofia yoga degli yama, concepita dunque in una dimensione anche “sociale” (pensiamo, solo per fare un esempio alla non violenza, all’astensione dal furto e agli altri yama, da vivere anche nei nostri rapporti con gli altri), Patanjali entra ora più nel profondo, nella pratica di valori più “intimi” e da mettere in atto verso se stessi.

Vediamoli insieme:

1. Śauca: pulizia

Il primo niyama, śauca, identifica la purezza e la pulizia. Pulizia del corpo, ma non solo. Limpidezza e chiarezza nella mente, nei pensieri, nei luoghi che viviamo ogni giorno, nei rapporti con gli altri.

Per coltivare śauca, sul tappetino ci è d’aiuto soprattutto il controllo del respiro, la pratica del prāṇāyāma, la concentrazione e la meditazione.

In questo modo, e con questi strumenti, purificando il respiro e concentrando la mente, piano piano andiamo a rischiarare anche lo spirito.

2. Samtosa: contentezza

Samtosa identifica proprio la contentezza, la capacità di vivere nella serenità, pace e tranquillità.

Pratichiamo questo secondo niyama quando allontaniamo i pensieri negativi, li lasciamo scorrere via, li lasciamo andare, così come lasciamo scorrere il nostro respiro; quando cerchiamo di vivere nel qui e ora, e ritornando sempre al respiro, alla consapevolezza e all’ascolto del suo movimento nell’addome, abbandonandoci e lasciandoci guidare dal nostro cuore, custode dell’anima, nostro vero e sincero maestro interiore.

3. Tapas, calore

Il concetto di tapas anticamente nasce nel contesto della pratica yogica nel freddo dei monti dell’Himalaya: tapas indicava qui le tecniche per produrre calore e riscaldare il corpo, aumentarne la temperatura attraverso la pratica, nei rigidi climi montani.

Con il tempo, tapas è poi passato ad indicare il concetto di calore ardente, dedizione e costanza, l’impegno continuo che infondiamo nel nostro cammino e nel percorso dello yoga: inoltre ordine, disciplina e austerità, intesa come pratica di un sobrio stile di vita, rispettoso dei principi dello yoga (regolarità nel sonno ad esempio, dieta in equilibrio, pratica del silenzio).

Pratichiamo tapas, dunque, quando restiamo determinati e presenti nella volontà di percorrere il nostro cammino; quando ci applichiamo per essere costanti nel praticare yoga (che sia in un centro, o nel proprio salotto), e quando ci sforziamo di mantenere saldi e sempre presenti, giorno dopo giorno, i principi morali che sono alla base della nostra etica.

4. Svādhyāya, studio di sé

Il quarto niyama, composto del sanscrito sva (sé) e adhyaya (avvicinarsi, esaminare, indagare), indica da un lato lo studio e approfondimento degli antichi testi della tradizione, i testi vedici e vedantici, ma anche un vero e proprio “studio di se stessi”.

Avvicinarsi al proprio Sé dunque, cercando di vedere con chiarezza e distinguere ciò che abbiamo da ciò che realmente siamo.

Restare dunque aperti, pronti a metterci in gioco, studiandoci con attenzione e spirito critico in una profonda indagine interiore.

Se nella vita pratichiamo Svādhyāya concentrandoci sulla ricerca interiore e sulla vera conoscenza di noi stessi, sul tappetino decliniamo questo quarto niyama attraverso l’ascolto attento del corpo, delle nostre sensazioni ed emozioni sul tappetino, e soprattutto attraverso la pratica della meditazione.

5. Īśvara-praṇidhana

Ultimo niyama, Īśvara-praṇidhana significa “abbandonarsi a Dio”.

Passati attraverso lo studio e la pratica degli yama, dopo aver purificato il corpo e la mente, concentrato la nostra attenzione e la nostra volontà nella pratica, imparato poco a poco a conoscere noi stessi attraverso svādhyāya, siamo infine pronti per arrenderci al Divino: ci abbandoniamo a Dio, con tutti i nostri pensieri, i nostri principi, la nostra pratica, certi che la Vita ci doni ciò di cui abbiamo bisogno e ciò che è davvero importante.

Così, nella comprensione dell’unità di tutte le cose, ci avviciniamo al significato profondo dello yoga.


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